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Case di tolleranza e legge Merlin: 60 anni fa chiudeva a Novara la “Villa delle rose”

Case di tolleranza e legge Merlin: 60 anni fa chiudeva a Novara la “Villa delle rose”

“Si chiamava Villa delle Rose e si trovava in via Gnifetti, dove poi c’era la dogana”: il ricordo di una delle case di tolleranza più note e frequentate della città di Novara è dello scrittore storico Gianfranco Capra “Era la casa per quelli che avevano i soldi. L’altra invece si trovava in via Goito ed era frequentata più che altro dai militari, che pagavano la metà. Ce n’erano più di quattromila in città, quando le caserme erano a pieno regime. Capirai…”.

Una realtà che sembra persa nella notte dei tempi, da quando cioè, il 20 febbraio 1958, venne approvata la Legge Merlin, dal nome della senatrice socialista che battagliò per l’abolizione delle “case chiuse”.

“In verità a Novara avevano già chiuso l’anno prima – ricorda Capra – perchè della questione se ne parlava da molti anni, il provvedimento era nell’aria e, come si sa, i novaresi sono persone che non amano i problemi… Tutto si svolse senza troppe polemiche, senza particolari tensioni. Il dibattito, quello vero, era in Parlamento”.

Fino all’approvazione della legge la prostituzione in Italia era regolamentata e reati come lo sfruttamento o il favoreggiamento non erano previsti dall’ordinamento, così come oggi non è reato prostituirsi volontariamente (se maggiorenni) perchè si tratta di una libertà personale inviolabile.

“A quel tempo invece la prostituzione era soggetta a leggi, come l’obbligo dei controlli sanitari… Ricordo che il dottor Fortina visitava le donne ogni quindici giorni, mentre lo Stato riscuoteva la tassa di esercizio sui casini”.

L’iter della legge fu lungo e tormentato: la prima proposta infatti la senatrice Merlin l’aveva presentata addirittura dieci anni prima, nel 1948. La spinta fu l’abolizione delle case di tolleranza in Francia, ma anche, successivamente, nel 1955, l’adesione dell’Italia all’Onu e la firma della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo che obbligava gli stati aderenti a sopprimere lo sfruttamento della prostituzione.

Ad opporsi con forza al provvedimento fu il Partito Liberale e Benedetto Croce “Eliminando le case chiuse non si distruggerebbe il male che rappresentano, ma si distruggerebbe il bene con il quale è contenuto, accerchiato e attenuato quel male”. Di diverso avviso ovviamente la senatrice Merlin “La sfrenatezza della vita  è un sintomo di decadenza. Il proletariato è una classe che deve progredire. Non gli occorre l’ebbrezza, né come stordimento, né come stimolo. Dominio di sé ed autodisciplina non è schiavitù, nemmeno in amore! Signori questo è l’insegnamento di Lenin ai giovani del suo Paese, ed anche noi dovremmo accoglierlo perchè non contraddice i nostri credi! I clienti sono spesso uomini corrotti, sposati e non scapoli soltanto…”.

La questione fondamentale era comunque la dignità della donna, secondo i fautori della nuova legge, calpestata dall’atteggiamento discriminatorio che relegava le meretrici a vivere una vita da recluse, con un marchio d’infamia perennemente cucito addosso.

“Mah, non mi sembra comunque che gli effetti della legge siano stati positivi per debellare la prostituzione, anzi – prosegue Capra – oggi ci sono altri fenomeni orrendi, come la tratta, la prostituzione minorile, la schiavitù… Senza contare che oggi ogni passato di denaro che alimenta una vera economia sommersa avviene senza alcun controllo…”.

“Villa delle Rose” era gestita da una maitresse che si chiamava Mara “Mia madre faceva la modista – racconta Capra – e forniva anche due signore della casa. Un giorno entrò dal retro per consegnare due cappellini ed all’uscita, su via Gnfetti incontrò una conoscente che la guardò stupefatta “O signora non pensavo che anche lei….” alludendo ad una partecipazione attiva di mia madre nella casa chiusa. Le due si chiarirono e la questione finì con una sonora risata… Storie d’altri tempi”…