Delitto nei boschi di Pombia, in Assise i primi testimoni. Soccorritori e carabinieri hanno ricostruito i vari momenti dell’uccisione dell’operaio di Busto trovato col cranio fracassato
Colpito con una pallottola all’addome, inseguito nei capannoni di una fabbrica abbandonata, e poi finito con una serie di colpi alla testa, prima col calcio della pistola, poi con una vecchia batteria d’auto reperita in zona fra i rifiuti. Questa la ricostruzione dell’omicidio dell’operaio Matteo Mendola nei boschi di Pombia raccontata stamattina dai primi testimoni al processo in Corte d’Assise a Novara contro il presunto mandante del delitto, Giuseppe Cauchi, imprenditore edile 53enne residente a Busto Arsizio come la vittima. Era stato indicato come ideatore dell’assassinio dall’esecutore materiale, Antonio Lembo, già condannato a 30 anni in abbreviato così come il suo complice Angelo Mancino.
I primi soccorritori, la mattina del 5 aprile 2017 – tra loro anche un passante che era entrato nei capannoni per un bisogno fisiologico – hanno parlato di un cadavere coperto da cartoni. Spuntavano solo i piedi, e intorno c’erano tracce di sangue, anche da trascinamento. Il medico legale ha confermato che la causa della morte sono stati i violenti colpi alla testa, perché quello di pistola all’addome non aveva provocato un’emorragia immediata, tant’è che Mendola aveva cercato di scappare dal piazzale in cui era stato portato con l’inganno e di entrare nella vecchia fabbrica. Era stato inseguito ed era poi caduto proprio vicino il portone d’ingresso, dove il killer si era accanito sul suo corpo, incurante del fatto che fosse ancora vivo.
I familiari della vittima erano presenti in tribunale. Sono costituiti parte civile. La mamma, nell’ascoltare il racconto dei soccorritori e soprattutto quello dei medici legale sull’autopsia, è scoppiata a piangere ed è uscita dall’aula.
Prossima udienza il 25 marzo. Sono previsti circa 100 testimoni e il processo andrà avanti almeno fino all’estate.