“Pronto sono Dominique, verrai alla mia festa?”. Sapevo della malattia, della sua scelta di non arrivare fino in fondo al tunnel e ovviamente conoscevo il suo pensiero sul fine vita. Sapevo anche che aveva organizzato una sorta di party per salutare le persone più care e stavo cercando di prepararmi alla sua telefonata, in modo da poter trovare il giusto atteggiamento, una reazione consona, delle parole misurate che non stessero fuori posto. Dominique Velati il 15 dicembre 2015 ha scelto la “dolce morte” il mondo lo seppe proprio il giorno 20. Il prossimo 4 febbraio avrebbe compiuto 62 anni, ma se ne andata due anni fa comprando un biglietto che aveva una prima tappa in Svizzera e poi destinazione verso l’ignoto. Faceva l’infermiera a Borgomanero e conosceva bene la malattia, la sofferenza, il dolore. Era una militante radicale, anzi lo è ad honorem, perchè il suo amico fraterno Giampiero Bonfantini, storico esponente novarese del partito, ha iscritto un giovane senegalese che non aveva le risorse, dedicandogli la tessera per il 2017 e lei stessa prima di lasciare questo mondo, ha rinnovato per l’anno 2016. Da militante del partito transnazionale transpartito, a militante “transcorporea”, originale ed unica fino in fondo. Aveva lottato tanto per affermare i diritti e le libertà personali, promuovendo e raccogliendo centinaia di firme per per tutte le battaglie radicali degli ultimi 30 anni. Una sera di un freddo inverno, nei primi anni ’90, l’ho incontrata in un appartamento di una modesta palazzina di Gattico. Sembrava di entrare in una comune, lei era davanti ad un tavolo con una Gauloises blu senza filtro infilata fra due dita, una delle poche cose che contestava a Marco Pannella, che accendeva e spegneva una dopo l’altra solo quelle rosse. Con il resto delle dita imburrava le tartine più disgustose che abbia mai mangiato. Mi aveva invitato Bonfantini, pensavo che il padrone di casa fosse lui, invece era proprio l’appartamento di Dominique, anche se ognuno si comportava come se fosse a casa propria e l’impressione era di stare in una famiglia, per quanto originale e meravigliosamente assortita. Una decina di carbonari, provenienti da almeno tre province, che mi guardavano increduli ed affascinati. Non si capacitavano dell’attenzione di una persona nuova, giovane, che addirittura scriveva sui giornali. Qualcuno che si interessasse a certe battaglie, che parlasse con loro, era un evento vissuto con l’entusiasmo tipico dell’eccezione. Mi coccolarono. Domy soprattutto, all’inizio sembrava quasi volermi proteggere. Temeva che la forza dirompente di certi argomenti potesse spaventarmi e farmi scappare via subito, come era successo spesso con altri “visitors”. Perchè come diceva Erich Fromm, all’inizio con la libertà pensi di volare, poi però ti fa paura, perchè la libertà ti obbliga a prendere delle decisioni, e le decisioni comportano sempre dei rischi e le conseguenti relative assunzioni di responsabilità. Ma Dominique capì quasi subito che ero pronto ad affrontare il diritto dovere della libertà, che implica anche un vero e proprio lavoro di attivismo quotidiano, perchè quando si comincia a darla per scontata, è proprio in quel momento che la si comincia a perdere. In cambio capii subito la differenza fra libertari e libertini, dove il rispetto della legge è sempre stato un dogma, salvo quando la legge era da cambiare, allora c’era la disubbidienza civile accompagnata all’autodenuncia, per far cadere le contraddizioni, e sottolineare le storture. Ed i presunti eccessi dei Radicali? Una leggenda metropolitana, visto il rispetto per le scelte altrui incluso i costumi, quasi con un pudore laicamente persino un pizzico bigotto, quando si parla di comportamenti privati da tenere nella sfera personale, assolutamente mai da giudicare.
Dominique era l’essenza stessa del rispetto, parlava senza mai usare il pronome personale, era tutto un “noi”. Si sentiva parte di comunità, anche diverse, e ragionava sempre in funzione di esse, mai per se stessa. Mai un accenno alla sua vita od ai suoi problemi personali, mai un riferimento a ciò che non riguardasse la collettività sociale o politica, niente meno un pettegolezzo su un amore o peggio qualche vizio, suo o di altri. Non sapevo niente di lei, forse perchè non c’era niente da sapere oltre a ciò che tutti potevano vedere. Di eutanasia, di fine vita, Dominique era un manifesto vivente, parlavano per lei le firme raccolte per strada, la sua partecipazione sempre discreta ai convegni, al dibattito pubblico. Una portatrice d’acqua mai alla ricerca di visibilità personale, che ha scelto come ultimo sacrificio alla causa, donare la sua immagine e la sua storia dolorosa, così pudicamente e scientemente tenuta in seconda fila. Dopo aver curato e assistito centinaia di pazienti, si era ammalata lei. Un cancro al colon che non gli avrebbe lasciato scampo. Conosceva bene i medici, sapeva muoversi all’interno della sanità, sapeva leggere i referti. Aveva solo qualche mese di vita e la prospettiva era solo quella della sofferenza finale. La libertà di scelta non è stata più solo un fatto da teorizzare, ci ha fatto i conti sulla propria pelle e non ha esitato un secondo, scegliendo per se, regalandone l’esempio. Amava talmente ciò per cui ha lottato, da donare se stessa, vincendo la reticenza dei riflettori che inevitabilmente gli sono finiti addosso. Giampiero Bonfantini mi aveva chiamato un paio di mesi prima del suo volontario addio. Il tumore senza scampo, la clinica a Berna, il desiderio che proprio lui, insieme a Marco Cappato, la accompagnassero in quell’ultimo viaggio. Poi mi tenne informato sugli sviluppi mediatici che seguì in prima persona, anche se dietro le quinte, assorbendo e mai mostrando quel dolore che Dominique ha saputo celare ancora meglio, forse perchè davvero non ce lo aveva proprio. Agli inizi di dicembre mi arrivò la tanto temuta telefonata con la quale mi invitava alla “festa”. Nel rispondere mi tremarono le dita e poi la voce, ma il tenore si fece subito leggero e le parole di Dominique mi rasserenarono, fu tutto naturale, persino piacevole. Prima di andare alla cena tornai però ad essere preda di sentimenti contrastanti, come se le mie convinzioni non fossero abbastanza forti, e mi sono messo in discussione. Mentre raggiungevo il posto a Borgomanero, ho pensato e ripensato a cosa gli avrei detto, ma sopratutto cosa avrei fatto davvero se mi fossi trovato al suo posto e se pure lei non avesse avuto qualche ripensamento. Poi sono entrato nel locale, Domy mi è venuta in contro e mi ha abbracciato, emanando una serena consapevolezza che ha mi immediatamente messo a mio agio. Eravamo una trentina, non di più. C’era Marco Cappato, Mina Welby, Giampiero Bonfantini, e la sua amata cagnolina Pallina, che proprio Bonfantini ha avuto in affidamento; e c’eravamo noi, cioè la sua famiglia, i suoi amici più cari. Abbiamo mangiato e bevuto un paio di bicchieri di vino, chiacchierato molto, cantato insieme al karaoke. La serata volgeva al termine, l’ho abbracciata, non ricordo neppure cosa ci siamo detti, tanto erano leggeri i nostri cuori, l’ho baciata e salutata. Solo in auto mi sono voltato a guardarla per l’ultima volta, oltre i vetri appannati del locale. Era incorniciata dalle luminarie natalizie e parlava amabilmente, mentre nella mano destra teneva un calice di vino e sul viso c’era un sorriso di serenità che raccontava di pace interiore. Sono andato via con tutti i miei interrogativi interiori, ma con la certezza che Dominique aveva scelto con assoluta lucidità e consapevolezza. Proprio le mie insicurezze sono la prova che se neppure io saprei decidere su me stesso, non capisco perchè dovrebbe farlo qualcuno al mio posto, magari senza conoscere il mio vissuto. Ho pensato che la mia mente ha fotografato il ricordo di altre persone care, con le ultime immagini di sofferenza e dolore, che alla fine non hanno per nulla reso giustizia ai momenti più belli che avrei voluto associare loro. Dominique, oltre alla sua amicizia disinteressata ed al suo esempio, con quel sorriso mi ha voluto regalare anche un ricordo così amabilmente serafico, consapevole e coerente.