Vengono dalla Nigeria, sono arrivati a Novara da poco. Come loro, tanti altri connazionali, uomini, donne e bambini che fuggono dai paesi africani per lasciarsi alle spalle una vita di violenza e soprusi. I sei ragazzi ospitati dalla cooperativa Pollicino, negli appartamenti di via Leonardo Da Vinci, hanno tra i 18 e i 25 anni.
Giovani di religione cristiana che sono fuggiti da morte certa. Sono loro stessi a raccontarci storie che fanno riflettere: “Sono originario della Nigeria, ma lavoravo in Libia, facevo il serramentista a Bengasi – spiega in inglese Olatinde Makindi – Quando sono arrivati gli islamici ci hanno controllati. Mi hanno trovato questo tatuaggio (ci indica sul braccio una croce celtica, ndr). Mi hanno portato via, mi hanno chiesto dei soldi per essere liberato. Mi hanno tenuto lì come uno schiavo per tanto tempo. Mi facevano fare i lavori più duri e mi torturavano“. Il ragazzo mostra i segni dei soprusi subiti: cicatrici ovunque, provocati da ustioni sulle braccia, sulle gambe e sulla schiena. Un giorno, decide di fuggire, di andare a recuperare nel suo Paese quel piccolo gruzzoletto che aveva messo da parte. Si imbarca su una nave e dopo un viaggio lunghissimo e durissimo, arriva in Italia, prima, e a Novara, poi. “Mi piace giocare a calcio. Vorrei che qualche squadra mi mettesse alla prova. Ma è solo un sogno. Mi basterebbe trovare un lavoretto e spedire un po’ di soldi alla mia famiglia. Mia madre e i miei fratelli sono rimasti in Nigeria“.
James ha solo 18 anni. Ne aveva anche meno, quando è arrivato in Italia, pochi mesi fa. Lavorava in un’industria di produzione auto. “Hanno ucciso mio padre e mia sorella, in casa, una sera. Io sono riuscito a scappare“. Ma il momento della cattura è arrivato anche per lui. I segni della tortura sono evidenti: “Mi hanno coperto la faccia con un cappuccio. Mi volevano uccidere. Poi hanno sparato al mio amico, accanto a me“. Le lacrime scendono lungo il suo volto, copiose. Da quel tragico giorno, è iniziato il viaggio che lo ha portato nel nostro Paese.
“Succede spesso – spiega Massimo Barini, collaboratore della Cooperativa Pollicino, responsabile dei migranti che arrivano a Novara – Di notte, si raccolgono nel loro letto e piangono. Sono ricordi, i loro, fatti di dolore e di tragedie che hanno vissuto in prima persona“.
Massimo ci racconta della quotidianità di questi ragazzi: “Qui abbiamo solo nigeriani. Cerchiamo di farli stare tra loro, in modo che si sentano un po’ a casa propria. Appena arrivati, bisogna insegnare loro tutto quanto, anche cose che per noi sono scontate. La strada, le vie, le strisce pedonali, l’orientamento. Li porto subito all’Asl per le visite mediche, le vaccinazioni e le radiografie. Poi in Questura per il rilascio di un foglio indicativo che consenta loro di girare e di poter essere identificati. La procedura per chiedere asilo politico parte subito, ma ci vuole un anno prima che vengano convocati nel Commission Day“. Un anno di preparazione alla cultura e alla società locale e soprattutto al mondo del lavoro: “Qui, in casa, io cerco di insegnare loro la nostra lingua innanzitutto. Recepiscono molto bene. Io conosco le lingue, con loro si parla in inglese, ma è fondamentale che imparino l’italiano. Tra poco inizieranno un corso specifico in una scuola di Novara”.
E poi i progetti: “Mi stanno dando una grossa mano ad allestire le pensiline della Sun con il progetto B-Art che sto seguendo con il collettivo artistico di cui faccio parte, i Barlafus. Un modo per cercare di responsabilizzarli. Finchè non avranno il permesso di soggiorno e la carta di identità, del resto, non possono lavorare. Sarebbe lavoro nero“. Massimo si occupa di elaborare progetti di formazione ai quali questi ragazzi possano partecipare: “Tra poco inizieremo un corso di meccanica ciclistica e sto cercando di avviarli anche ad un corso di informatica di base, in modo che sappiano utilizzare un computer“. Spesso manca il supporto dell’ente pubblico in questo percorso: “Ci arrangiamo da soli, privati con privati“.
Sono ragazzi semplici, dalla vita prima normale che hanno lasciato il loro Paese per cercare di salvarsi. Tra loro c’è anche chi è arrivato in Italia nella stiva di una nave, sopravvissuto soltanto perchè se ne è rimasto ben nascosto, rischiando di morire soffocato. Ricordi duri che certo non passano e che creano problemi ancora oggi in questi giovani.
C’erano anche due ragazze giovani fino a qualche tempo fa. Per le donne, la questione è molto diversa: arrivate in Italia vengono messe su una strada e difficilmente ne escono. “Le abbiamo fatte spostare – spiega Massimo – Qui ci sono regole chiare da rispettare per la convivenza di tutti. Non le rispettavano e abbiamo dovuto allontanarle“. Ragazze che hanno subito violenza nel loro Paese, ma anche in Italia, ragazze che tornavano a casa con il volto martoriato e pieno di lividi.
Massimo non si stupisce più dinanzi ai loro racconti e alle loro lacrime: “Ho sentito davvero tante storie, tutte fatte di violenza, di morte, di terrore. Funziona così in quei Paesi. Inutili le polemiche: o si risolve il problema a livello diplomatico, oppure quando queste persone arrivano si cerca di fare qualcosa per loro. Dopo quello che hanno passato, direi che è il minimo“. “No problem James“: dice Massimo al ragazzone di 18 anni che scoppia in lacrime ricordando la sua famiglia morta ammazzata davanti ai suoi occhi.
Rimane la speranza di un futuro certamente migliore di quello che il destino aveva riservato loro nel paese d’origine. Loro, che hanno visto in faccia per lungo tempo la morte e la violenza, ci credono e ci sperano.