Nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il silenzio e i drammi che circondano quetso tema diventano spunto di riflessione e di approfondimento. I risvolti psicologici, le paure e la donna stessa nella storia vengono analizzati dal dottor Franco Mittino, psichiatra del Dipartimento Interaziendale di Salute Mentale dell’Asl Novara per provare a dare una spiegazione ai tanti fatti che ogni giorno accadono intorno noi e che spesso ci risultano incomprensibili.
Come si esprime la violenza sulle donne?
Il termine violenza delinea una situazione in cui la vittima, oltre ad essere costretta ad agire contro la propria volontà, si trova in una condizione di inferiorità, di subalternità da un punto di vista soggettivo o oggettivo. Ma in quale modo un soggetto adulto può essere inferiore ad un altro? Può esserlo fisicamente, intellettivamente, oppure soggettivamente, se si percepisce come mancante di qualche attributo, prerogativa che gli “altri” dovrebbero avere.
Ma l’inferiorità tra persone adulte corrisponde a una percezione distorta dell’Io e della propria immagine corporea.
Esiste, se ci pensiamo, una particolare situazione che rende la donna, ancora ai giorni nostri, più fragile e dipendente dall’uomo: la gravidanza. Nelle casistiche è rilevabile come i partner diventino violenti proprio in concomitanza con la prima gravidanza delle mogli. In realtà la gravidanza delle compagne, in certi uomini, riattiva un’antica frustrazione: un vissuto di rifiuto, esclusione e perdita dell’attenzione, in definitiva la conferma di non essere più amato da parte della compagna.
Perché è così difficile entrare in relazione con l’altro?
La capacità di entrare in relazione con l’altro presuppone il riconoscimento, l’accettazione e il rispetto degli interessi personali dell’altra persona: questa è la vera reciprocità. Per colui che effettua il gesto violento e aggressivo, il partner è privo d’individualità, è un oggetto complementare a se stesso, una cosa che deve essere posseduta per mantenere l’illusione dell’onnipotenza narcisistica. La donna maltrattata è pervasa da un profondo senso di colpa e da un vissuto di inadeguatezza che spesso la spinge a collezionare umiliazioni e sofferenze in un escalation di tensione e violenza che conduce alla esperienza traumatica.
In alcuni casi il maltrattamento e la violenza subita possono rappresentare per la donna un “male minore” rispetto ad una temuta separazione dalla figura maschile: molte donne possono essere fermamente convinte di meritare delle punizioni.
La violenza ha origini molto antiche…
Il racconto di un mito dell’antica Grecia ci suggerisce comportamenti radicati nella profondità inconscia della natura umana. Ovidio ci racconta la storia mitica di Ceni, una vergine bellissima che abitava in Tessaglia, la terra dei centauri. Tutti avrebbero voluto sposarla, ma la giovane non aveva fretta. Un giorno, però, mentre camminava da sola lungo il mare, il dio Poseidone (Nettuno) uscì dalle acque e le usò violenza. Forse perché voleva mostrarsi un po’ contrito, forse perché non gli costava nulla, Poseidone disse alla ragazza: “puoi esprimere un voto senza che ti sia rifiutato. Scegli quello che desideri”. “Da questa offesa – rispose Ceni – nasce un solo desiderio: che non avvenga mai più una cosa simile. Fa’ che io non sia mai più donna, e avrai compiuto il più grande mio desiderio”. Come aveva promesso Poseidone acconsentì. Oggi la clinica ci dice che poco è cambiato dal mito di Ceni.
Il desiderio che la violenza non si ripeta è scontato, ma a che prezzo?
Bisognerebbe obbligare i violenti a cambiare: ma siccome questo spesso è impossibile, è la vittima che costringe se stessa a cambiare. La vittima paga due volte. Subisce prima la violenza carnale, ma, dopo di essa, la donna può riversare il suo rancore, anziché sul maschio che l’ha aggredita, su quella bellezza e su quella grazia femminile che sente in qualche modo responsabili dell’aggressione.
Quanto incidono la solitudine e l’isolamento della famiglia?
Rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto, la condizione della donna è cambiata in corrispondenza delle trasformazioni subite dalla famiglia, che oggi si presenta in forma nucleare, isolata, racchiusa nelle pareti di casa.
Quel che succede in casa resta spesso compresso e non detto. Quando si esce di casa, ciascuno indossa una maschera il cui compito è quello di non lasciar trasparire nulla dei drammi, delle gioie o dei dolori che si vivono dentro le mura domestiche. La non ingerenza nel privato, se da un lato rappresenta il fondamento della libertà personale, spesso diviene un fattore di disinteressamento reciproco, e quindi meccanismo che crea solitudine e amplifica i problemi che la comunicazione saprebbe condurre alla giusta dimensione. Se i valori che oggi circolano non sono più solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco ma business, tutela della privacy, immagine, tranquillità allora è possibile che si facciano strada l’isolamento della famiglia e la latitanza del sociale.
Si giunge in tal modo al diniego che secondo Cohen rappresenta il primo adattamento della famiglia alla devastazione causata da un suo membro; la sua presenza deve essere negata, ignorata, sfuggita o spiegata con giustificazioni ed alibi inverosimili, altrimenti si rischia di tradire la famiglia.
Qui scatta quella che potremmo definire la “morale della vicinanza” che tende a difendere il gruppo (familiare, comunitario) e a ignorare tutto il resto, finendo per sostituire alla responsabilità, al senso civico, al coraggio, al sentimento della comunità l’indifferenza, l’ottundimento emotivo, la alienazione, l’apatia, alla fine la solitudine di tutti nella vita della città.
Per concludere un appello agli uomini….
E’necessario che nel maschile si apra una riflessione ma anche un invito ad affrontare contraddizioni inevitabili che si aprono sull’argomento della violenza sulla donna. Il permanere della violenza sulla donna a tutte le latitudini e in forme socialmente e culturalmente determinate, mostra come ancora oggi sia vitale un ordine simbolico centrato sul maschile, un sistema di poteri che plasma i nostri corpi, le nostre identità, le relazioni tra di noi. Come uomini, dobbiamo misurarci con un universo maschile generatore di questa violenza, non soltanto con comportamenti diretti di aggressività nei confronti delle donne, ma anche con modelli culturali che strumentalizzano la figura femminile riducendola a mero strumento di piacere. Dobbiamo riflettere sulla possibilità di produrre stili di vita e pratiche capaci di cambiare i comportamenti, i modi di pensare se stessi e il mondo sino alla costruzione della nostra identità di uomini. La vera tutela del femminile da parte degli uomini passa attraverso la possibilità, a tutti i livelli, familiare, sociale, politico di pensare ed agire con amore nel senso etimologico del termine, che ci ricorda il filosofo Norman Brown: a-mors, “toglimento di morte”. La morte che è profondamente inscritta e radicata in ogni gesto violento e aggressivo.