Riceviamo e pubblichiamo:
“Io mi ricordo, che c’era una clessidra come questa, in casa di mio padre. La sabbia scorre attraverso un forellino così sottile che all’inizio, sembra che il livello della parte superiore, non debba cambiare mai. Cominciamo ad accorgerci che la sabbia scorre via solo verso la fine; ma prima di allora, ci vuole così tanto che, non vale la pena di pensarci. Poi, all’ultimo momento, quando non c’è più tempo, ci si accorge che è troppo tardi, per pensarci”.
Tratto dal romanzo di Thomas Mann “La Morte a Venezia”

Villaggio Dalmazia 1964 “El barbier col picio” – Collezione privata dell’autore
La datazione può trarre in inganno i meno accorti, mentre i più perspicaci si chiederanno del perché di questo accostamento.
E’ vero che il sessantesimo anniversario del quartiere Villaggio Dalmazia + avvenuto nell’anno appena trascorso, per l’esattezza il 3 ottobre 2014, con una solenne cerimonia.
Evento che rimanda alla posa della prima pietra in quell’area che, grazie alle sovvenzioni (perché di questi tempi è doveroso “ricordare” anche questo) dell’organizzazione statunitense UNRRA-CASAS ed allo stanziamento dei fondi previsti dalla Legge 137 del 4 marzo 1952, oltre a quelli di altre associazioni e privati che si offrirono volenterosi, vide la costruzione di abitazioni destinate agli esuli ospitati all’interno dei vari centri di raccolta.
Com’è altrettanto vero che da undici anni lo Stato italiano ha istituito il Giorno del Ricordo (Legge 30 marzo 2004 n.92) al fine di preservare e divulgare la tragedia vissuta da quegli italiani d’oriente, vittime dell’esodo dalle loro terre.
Peccato che, senza pretese di divulgazione nazionale, il Comune di Novara si sia dimenticato del “suo” evento, ovvero la posa di quella prima pietra, avvenuta appunto il 3 ottobre di sessant’anni fa.
Proprio una brutta figura, mentre a noi non resta che recitare il mea culpa, perché abbiamo comunque le nostre responsabilità.
E veniamo all’evento del 10 febbraio 2015: undicesimo anno della ricorrenza annuale che la Repubblica italiana ha indetto perché ci si “ricordi” di una realtà sepolta per decenni, ovvero quella dei 350.000 esuli, che ridona una “identità” a chi, pur non avendola mai dimenticata, viveva uno stato di coercizione tale da impedirne la libera espressione.
Tra il primo evento locale e quello nazionale esiste una discrepanza di tempo calcolata in 131 giorni.
Può sembrare un dettaglio insignificante e invece no: i due eventi a mio avviso non possono essere scissi, poiché l’uno si riflette nell’altro e viceversa, esiste un dialogo, un’interazione, uno scambio indivisibile.
Non mi soffermerò sugli accenni storici che con dovizia la voce autorevole di chi ha vissuto sulla propria pelle la tragedia di quegli anni saprà raccontare, “raccontandosi” nell’arco degli eventi ufficiali e nelle principali manifestazioni dedicate a questo particolare giorno.
Questo anche grazie alla magistrale rappresentazione teatrale di Simone Cristicchi che, con il tour “Magazzino 18” (Teatro Coccia, giovedì 26 febbraio) è riuscito a compiere un miracolo divulgativo che in molti hanno fallito negli anni passati. Non ne ho facoltà per farlo e non ne sarei minimamente all’altezza; ho troppo rispetto e soggezione di chi ha custodito in dignitoso silenzio ferite insanabili.
Del resto sono un “figlio” di prima discendenza, nato a Novara e quindi impermeabile all’enormità emozionale che solo chi ha provato sulla propria pelle può enunciare, trasmettere… Ma resto pur sempre “uno del Villaggio”…
Troppi anni allontanano le esperienze generazionali e riadattando la visione di Aldous Huxley, quel che resta a noi, figli di quegli italiani e di quel preciso momento storico, è il misero rigagnolo di quella specie di coscienza che ci permetterà di tramandare da generazione in generazione la nostra storia.
Una responsabilità gravosa quella di coltivare la sopravvivenza biologica del ricordo, seppur filtrata da quel tempo che prende le sembianze della sabbia che scorre nello stretto collo della clessidra, lasciandoci attoniti su come la storia, la vita, scivoli via.
Ci si accorge sempre all’ultimo di come il “tempo irreparabilmente fugge” e di quanto il nostro menefreghismo di (ex) giovani egoisti, seppur legittimati dalla stagione della spensieratezza, abbia spazzato via per sempre la testimonianza dei nostri vecchi.
Quell’eredità storica di cui solo in parte potremo riappropriarci, se ci impegneremo nel farlo.
Ma, tornando a Huxley, l’insieme di ricordi, seppur scombinati, a tratti indecifrabili (fatti di memorie, album di fotografie sbiadite, pellicole in super 8, cartoline, lettere, libri impolverati, quarantacinque giri e vetusti nastri di stonate musicassette) costituiranno l’humus ove poter coltivare, sulla superficie di questo particolare mondo – che è quello di tutti i “figli” degli italiani d’oriente, esuli istriani, fiumani e dalmati – l’insieme di quelle esperienze… Alla pari di un linguaggio che, seppur trasformato dall’ossidazione del tempo, ci permette di restare “legati” indissolubilmente a quei simboli unificati che attraverso di noi parlano del passato che continua a vivere.
Anch’io sono uno di loro.
Uno nato a Novara come tanti altri, proprio in quel quartiere dell’area Sud, un tempo facente parte del Torrion Quartara.
Con questo breve intervento a voce di tutti noi, primi discendenti di quegli esuli che umilmente, nel silenzio, rispettosi della leggi, senza pretese e fin troppo ossequiosi verso chi ha sagacemente approfittato di una certa incapacità reattiva (da non confondersi con reazionaria) dei nostri cari genitori nel far valere diritti ancor oggi violati, desidero “ricordare” che la nuova generazione è “PRESENTE!”.
Non soltanto a Novara, non soltanto sul territorio nazionale, ma in ogni anfratto del globo dove “la nostra gente” ha saputo, con sacrifici enormi, ricostruire un’identità antica e recentissima. Prima di congedarmi, permettetemi di dedicarVi questa breve citazione estrapolata da una lettera scritta al fratello Federico dal capitano della legione “Dalmato-Istriana” Luigi Seismit-Doda nel Settembre del 1849:
“La nostra disgrazia è purtroppo compiuta. Venezia è caduta [ … ]. Noi non l’abbiamo sepolta, e poveri profughi portiamo in petto le varie scintille di libertà, ovunque ci relegherà il destino.”
Un caro saluto a tutti VOI, “ciao pici”!
Guido Bakota
Flotta Lazzaro Mocenigo 1954 – Eredi Villaggio Dalmazia (Novara).
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