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Novara

Una trappola mortale dietro l’omicidio di Matteo Mendola a Pombia

Con l’arresto del mandante si conferma l’ipotesi della trappola mortale, che sarebbe stata tesa a Matteo Mendola. La sera del 4 aprile il 33enne di Busto Arsizio era convinto di uscire per andare a commettere un furto in villa a Pombia. La vittima, infatti, era stata trovata vestita con una tuta scura. Ma una volta arrivato con i due complici nel Parco del Ticino, Mendola è stato sopraffatto e ucciso brutalmente. Sullo sfondo un movente legato alla droga. Forse dei debiti che Mendola avrebbe pagato con la vita.

Il colpo in villa era stato pianificato da Mendola e dai suoi assassini. Qualche giorno prima la vittima aveva partecipato a un sopralluogo preparatorio. Non si trattava della prima esperienza da topo d’appartamento, secondo gli inquirenti. I riscontri e le dichiarazioni raccolte danno agli investigatori le certezza che al momento della brutale esecuzione fossero presenti Antonio Lembo e Angelo Mancino. Entrambi sono reoconfessi, ma Mancino sostiene che quella sera era uscito di casa per andare a commettere il furto e che non sapesse del delitto. Ci si sarebbe trovato in mezzo.

Ma Lembo, Mancino e Giuseppe Cauchi (ritenuto il mandante, arrestato all’alba di martedì 19 settembre) sono tutti accusati di omicidio premeditato aggravato. Secondo la Procura di Novara il delitto era stato pianificato, perché avvenisse in una giornata in cui Cauchi si trovasse via da Busto, in modo tale da garantirsi un alibi. E così è stato.

Mendola conosceva l’uomo che avrebbe commissionato il suo omicidio. Entrambi facevano parte della comunità gelese di Busto Arsizio, si erano frequentati e avevano amicizie in comune. Fra Lembo, Mancino e Cauchi c’erano dei rapporti di lavoro. Mancino, originario del centro Italia, si era trasferito al Nord proprio per andare a lavorare per Cauchi nel settore edile.

Matteo Mendola, con alle spalle piccoli precedenti per droga, risultava disoccupato. In passato aveva gestito un’attività legata alla telefonia a Busto Arsizio, poi chiusa repentinamente per motivi poco chiari. Persino la moglie, sentita durante le indagini, non è stata in grado di riferire agli investigatori quale fosse l’occupazione del marito prima dell’uccisione.