Bundì nuares!
Sapete chi erano i “Cinq da Nuara”? Forse no, soprattutto se siete molto giovani.
Ebbene, sappiate che i cinque in questione hanno combinato una bella rivoluzione in città, perché hanno gettato le fondamenta della letteratura in novarese.
Non che prima non si scrivesse in lingua locale beninteso, ma i cinque, rappresentanti della città “colta” (uno di loro, Sandro Bermani era addirittura Sindaco) “sdoganarono” – come si direbbe oggi – di fatto il novarese, conferendogli una maggiore dignità letteraria.
Tutto nacque all’inizio degli anni ’60, da un intuizione (felice) di Giulio Carlo Genocchio, che “ebbe il coraggio” di scrivere e addirittura “pubblicare” dei componimenti in novarese. Allora Vicedirettore Responsabile de “La «Gazzetta» di Novara”, “al Ginöcc” invogliò i lettori, tramite l’ipotesi di un concorso (che poi non partì mai), a mandare poesie in “linguaggio indigeno”, confidando, forse sapendo, che nel cassetto di qualche concittadino giacevano nascosti preziosi componimenti letterari, che vedevano la luce magari soltanto durante qualche cena tra amici.
La novità assoluta fu questa: persone di cultura che volutamente scrivevano in “dialetto”, rompendo il binomio “dialetto” = ignoranza.
Si trattò del ribaltamento di un costume culturale in voga allora (ed anche oggi, purtroppo) voluto per disincentivare l’uso del “dialetto” in favore dell’insegnamento dell’Italiano. Una politica che, a ragion veduta, provocò e provoca tuttora molti danni per le parlate locali che, se non fosse per la tenacia di persone che le preservano, tenderebbero a scomparire. Ciò soprattutto in una Novara abbastanza tiepida verso il riconoscimento di una caratteristica culturale locale a mio avviso molto importante.
Fatto sta che alla provocazione del “Ginöcc” aderì subito Sandro Bermani, sindaco di Novara in quegli anni, e con lui, fra gli altri, Maria Fenoglio De Angelis (Malilla), Luisa Falzoni, che già collaborava al giornale, e Dante Ticozzi. Insomma persone che rappresentavano l’intellighenzia cittadina.
Probabilmente grazie a Oreste Gallina, poeta langarolo trapiantato ad Arona, la “novità” giunse alle orecchie di Pinin Pacot (Giuseppe Pacotto), allora nume tutelare della cultura in Piemontese, che nel ’61 venne apposta a Novara a conoscerli e coniò per loro il nome di “Cinq da Nuara”. I loro scritti sono pietre angolari che ancora oggi reggono dimore poetiche capaci di scaldare i cuori e le anime di chi ama la nostra parlata.
Vi propongo (nella grafia locale dell’Academia dal Rison) una poesia scritta dal Ginöcc da cui traspare la sua autoironia ma anche il suo attaccamento ai valori racchiusi nella parlata locale. È tratta da “Ris e rani”, libro in cui è raccolta la gran maggioranza dei suoi componimenti.Aggiungo anche una foto, tratta da “«Ij Brandé» Piemont 1962”, in cui sono “immortalati” i nostri “Cinq”. Alla prossima puntata, cari novaresi!
(Ndr: per un problema tecnico nell’ultimo articolo di Elisabetta Silvestri erano “saltate” due foto. Ce ne scusiamo con l’interessata e con i nostri lettori)
Mi, pueta?!?!
Eppure, in provincia capita
anche questo: cosa volete farci…
Credevi propi mia
da vess tantu impurtant in puesìa,
da vess fina indicà
tra i persuni impurtanti dla Cità.
Inveci una fiulèta int un so tema
(e scüsim se la vus adèss la trema…)
ch’la duveva parlà
di grandi persunagg dla so cità,
l’ha miss anca al mè nom
cume pueta: Mi,!? Oh mi; povr’om!
Oh, fiola dal Signur
mi són mia propi degn da tantu unur:
ch’i scrivi dla rubèta l’è ’nca vera,
magari anca sincera,
sentend al cör ch’al canta,
vidend fiurì na pianta,
o un gat a cur süj tecc,
o quan’ ch’im senti vegg,
o, inveci, quan’ ch’im senti ’mè ’n giuvnot,
o, dimparmì, da not
pensi a la vita grama
e im ricordi dla mama……….
Ma da chì a vess pueta, almenu am pàr,
gh’è d’intramès al mar!
…………………………………………………………
Però, disùmal, gh’è da vess cuntent
che int [a-]sti brüt mument,
quan’ l’ǜnica surgenta d’istrüssión
l’è la televisión,
quandu ch’it tìran scemu
a füria ad Cansunìssima e Sanremu,
quan’ che par vess di mej
a cünta la lunghèssa di cavej:
quan’ che la civiltà
l’è cume la Viulèta,
ch’la và, la và, la và…
(e indua la disi mia),
a gh’è chi ch’as ricorda dla puesìa!
(anca s’l’è ’mà rubèta,
forsi da vün ch’l’è mia propi pueta).
…………………………………………………………
Grassie, grassie, fiulèta dal Signur,
ingénua cumè ’n fiur,
e grassie mia par mi,
ma par un mund ch’al deva mia murì!
Giulio Carlo Genocchio (5 novembre 1971)
IO, POETA?!?!
Non credevo proprio
di essere tanto importante in poesia,
da essere addirittura indicato
tra le persone importanti della Città.
Invece, una ragazzina, facendo un tema
(e scusatemi se mi trema un pò la voce)
in cui doveva parlare
dei grandi personaggi della sua città,
ha messo anche il mio nome
come poeta: proprio me, accidenti!
Oh, cara la mia bambina,
io non sono affatto degno di tanto onore:
che io scriva qualcosuccia è anche vero,
magari anche con sincerità,
sentendo il cuore che canta,
vedendo fiorire una pianta,
o un gatto che corre sui tetti,
o quando mi sento vecchio,
o, invece, quando mi sento giovanotto,
o quando, da solo, di notte
penso alle disgrazie della vita,
o mi ricordo della mamma…
ma di qui a essere poeta, almeno mi pare,
c’è di mezzo il mare!
…………………….
Però, diciamolo, c’è da essere contenti
che in questi brutti momenti,
quando l’unica sorgente di istruzione
è la televisione,
quando ti rimbambiscono
a furia di Canzonissime e di San Remo,
quando per essere tra i meglio
conta solo la lunghezza dei capelli,
quando la civiltà
è come la Violetta,
che la và, la và e la và…
(e dove non si sa),
c’è chi si ricorda della poesia,
(anche se è solo robetta,
e forse di uno che non è nemmeno poeta). …………………….
Grazie, grazie, bambina del Signore,
ingenua come un fiore,
e grazie non per me,
ma per un mondo che non vuol morire!
Giulio Carlo Genocchio (5 novembre 1971)